Controllo documenti, tesserino
della polizia al petto e poi il tintinnio di grossi e pesanti mazzi di chiavi
che ci accompagna fra le mura di mattoni rossi della prigione di Brema.
Curiosità e un po’ di disagio hanno fatto strada con me fra i corridoi della
struttura fino ad arrivare alla nostra meta: i laboratori di scultura. Qui
l’atmosfera si fece subito interessante e stimolante, gli attrezzi sparsi sui
tavoli, la polvere e la segatura del legno un po’ ovunque, i forni, gli smalti,
sculture sugli scaffali a seccare ed altre già ultimate sul pavimento e in ogni
angolo, e dei ragazzi (detenuti) che lavoravano con dedizione alle loro
sculture. Lì mi sono sentita subito più a mio agio, avrei avuto voglia di
lavorare con loro. Qualcuno parlava un po’ di inglese e con piacere mostrava a
me ed alla mia collega le proprie sculture ed il progetto a cui stava
lavorando, con tutto l’entusiasmo che
c’è quando si crea qualcosa che
va crescendo da una bozza e con un po’ di timidezza nel mostrare qualcosa di
personale. Nel loro laboratorio prendono forma sculture in ceramica,
terracotta, pietra e legno, di diverse dimensioni e soggetti. Molte di esse
sono legate a dei progetti specifici, per esempio molte sculture sono destinate
a decorare parcogiochi e per questo caratterizzate da colori luminosi e
soggetti adatti ai bambini, le sculture rappresentanti animali erano talmente
tante che sembrava di essere in uno zoo! e nel soppalco bisognava fare
attenzione a dove mettere i piedi per non urtare le sculture per cui non c’era
quasi più posto. Una delle due donne responsabili di tale laboratorio si chiama
Martina (come me) e come me ha studiato all´Accademia di Belle Arti, una
simpatica coincidenza. Martina mi ha spiegato che il loro intento non è quello
di usare l’arte come terapia, che loro non hanno nemmeno idea di quali siano i
reati commessi dai detenuti con cui lavorano e in questo modo il loro
atteggiamento nei loro confronti non è condizionato da nulla. Nella prigione di
Brema l’arte è espressione, libera creazione e non arteterapia, è un lavoro e i
detenuti producono sculture per diversi parchi o eventi ed esposizioni, ma a
volte vengono anche commissionate da privati. Talvolta il progetto viene
discusso in gruppo da chi lavora al laboratorio e per le sculture più grandi si
lavora in team, altre volte l’ente che richiede le sculture ha già un progetto
ben strutturato a cui doversi attenere. Alle opere di dimensioni più piccole
lavorano singolarmente anche se non di rado capita che scontata la pena il
detenuto viene rilasciato e qualcun altro porterà a termine l’opera rimasta incompiuta. Le
sculture più interessanti, alcune ironiche, altre cariche di rabbia, sono
quelle spontanee e nate dall’esigenza d’espressione o di creazione, sono queste
le opere in cui si avverte maggiormente qualcosa della persona che c’è dietro
la materia. Sorprendente come all’interno di una prigione possa esistere un
ambiente così dinamico, creativo, colorato e stimolante come i laboratori di
scultura che ho visitato a Brema, da cui nascono svariati eventi ed
esposizioni. Durante la mia visita si discuteva appunto della possibilità di
rendere tali sculture fruibili ad un pubblico di non vedenti che attraverso il
tatto potranno percepirne le forme stravolgendo così il concetto di
“visibilità” dell’arte per un pubblico che non sarà più costituito, questa
volta, da “osservatori”.
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